L’Approdo: l’epopea delle migrazioni nello struggente fumetto di Shaun Tan

di Lorenzo Barberis

L’approdo

L’Approdo di Shaun Tan è a suo modo una pietra miliare del fumetto moderno. L’autore, classe 1974, nato in Australia da una famiglia di migranti malesi (e ai genitori dedica, non a caso, “L’Approdo”), ha realizzato in esso una grande epopea delle migrazioni: l’opera con cui è divenuto conosciuto a livello internazionale nel 2006, dopo una vasta attività pregressa di illustratore e autore che datava dal 1996. In seguito, Tan avrebbe vinto anche il Premio Oscar 2011 per il miglior corto di animazione con Oggetti smarriti, tratto da un suo omonimo racconto illustrato del 2000, dove il tema della ricerca del senso dell’esistenza passava tramite il ritrovamento di un oggetto misterioso.

L’edizione de L’approdo da parte di Tunué, nel 2016, rappresenta un landmark importante nella storia dell’editrice, accogliendo nel catalogo un autore internazionale di primo piano che ha interpretato al massimo livello e con profondità critica i temi dell’accoglienza e dell’inclusione, ottenendo qui da noi anche l’endorsement di un autore come Roberto Saviano, che ha consigliato entusiasticamente quest’opera. In questa nuova edizione, di grande impatto è fin da subito la nuova copertina dell’opera, che riproduce nell’aspetto uno dei pacchi dei migranti di allora, legati da uno spago e coperti da scritte e bolli i quali ne testimoniano il lungo e tormentoso viaggio. Una soluzione di grande impatto che arricchisce l’opera, come pure, simmetricamente, le ampie schede finali che ci illustrano con dovizia di dettagli la sua genesi.

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L’Approdo edizione speciale con sketchbook

Come noto, dunque, Tan narra nel suo capolavoro una storia di migrazione ispirata a quelle dell’inizio del ‘900, ma di estrema attualità ancor oggi. Sia pure nella rielaborazione fantastica, rivediamo le vicende dei migranti di tutto il mondo – moltissimi italiani – spinti a cercare una miglior sorte in America, transitando dal 1892 fino al 1954 per la celebre Ellis Island di New York, il principale punto d’ingresso degli immigranti americani in quegli anni, il luogo concentratissimo dove iniziano moltissime storie delle famiglie che ora compongono la nazione.

Tan, come noto, rende la storia universale sia aggiungendo un tocco di fantastico, percepibile fin dalla immagine di copertina, sia utilizzando in tutta la sua potenza fumettistica la “storia muta”: omettendo i dialoghi, l’opera risulta universale, e beneficia anche dall’evocazione del clima del cinema delle origini, quel cinema muto che dal 1896 al 1927 (fino cioè all’avvento del sonoro) crebbe in parallelo al fenomeno di quella migrazione, in parte raccontando – più che i migranti in sé – il difficile mondo degli ultimi con toni spesso di altissima poesia, con Charlie Chaplin e non solo.

Anche la scelta stilistica contribuisce fortemente a evocare quella tumultuosa e spesso drammatica transizione tra Otto e Novecento, con i toni seppiati e i contorni sfumati delle vignette che insieme contribuiscono a richiamare l’apparenza dei dagherrotipi ottocenteschi. E se le immagini della prima pagina appaiono proprio i particolari del ricordo del migrante fissati come in fotografia dallo sguardo dell’uomo in partenza, una fotografia appare proprio nella seconda pagina a simboleggiare l’ultimo esile legame con la famiglia lasciata, come fu effettivamente per molti migranti reali (il sottile parallelo tra fotografia e disegno ritorna anche nel recente lavoro di Paco Roca, Ritorno all’Eden). Il tema della fotografia percorre sottilmente tutta l’opera: sia nella tecnica di rielaborazione fantastica di immagini fotorealistiche che l’autore usa magistralmente, sia nelle fotografie che ritornano all’interno dell’opera: quella della famiglia, certo, ma anche la foto che lo identifica e scheda come migrante dopo l’arrivo nella New York immaginaria dell’opera, e altre nel testo (come, ad esempio, nei racconti “di secondo livello” con cui gli altri migranti raccontano al protagonista le loro storie, e che appaiono come una collezione di fotografie sbiadite, riquadrate di un bordo bianco).

I drammi del Novecento che hanno mosso le grandi migrazioni appaiono trasfigurati in una dimensione fantastica che dà loro valenza universale, ma con un sufficiente rimando al reale tale da mantenerne la dimensione terribile. Il dramma dello sfruttamento del lavoro quasi schiavile rievoca la Londra di Charles Dickens riletta da Doré, l’immagine terrificante dei giganti che sterminano un popolo lillipuziano con l’uso di insetticidi rievoca  il tremendo uso dei gas nel colonialismo europeo in Africa (e anche, rovesciandone il senso, le orrende cartoline del cartoonist e fumettista Enrico De Seta, che sotto il fascismo quell’uso dei gas lo esaltava nelle sue mostruose immagini cartoonesche)

Il perfetto, commovente funzionamento dell’opera di Tan dipende indubbiamente dalla abilità dell’autore nel condurre la difficile arte del racconto muto, come abbiamo delineato, in una completa padronanza del medium. Ma, forse, la sua forza dipende anche dall’essere perfettamente integrato alla storia del medium fumettistico, che si origina proprio agli inizi di questa “era di Ellis Island” americana che viene evocata dall’opera, e niente affatto per caso.

I primi fumetti modernamente intesi, a partire da Yellow Kid (1895) nascono sulla grande stampa popolare americana, nel duello tra Hearst e Pulitzer, proprio per avvicinare ai giornali il grande nascente pubblico dei migranti, che non padroneggia ancora perfettamente la nuova lingua e beneficia maggiormente di queste storie narrate per immagini, coloratissime nelle loro Sunday Pages, dove il disegno integra (e, di fatto, spesso nei primi fumetti sopperisce interamente) il testo.

In Tan, tra l’altro, vi è una scena sottilmente metafumettistica dove il migrante protagonista non capisce inizialmente la lingua e la scrittura di quella nuova città (né, nell’elaborazione fantastica di quelle scritte spiraliformi, la comprende il lettore, di cui così è favorita l’immedesimazione) e quindi riesce a farsi capire con un disegno che mostra la sua ricerca di un letto, integrando testo e immagine: proprio come un fumetto.

Dunque, non è certo a caso che le storie di Yellow Kid e della pittoresca Hogan Alley dove vive raccontino la tumultuosa e in fondo allegra vita dei migranti che animano la grande città (esattamente come avviene nell’opera di Tan): parlano, quelle storie, di ciò che accade nella società, rielaborato in chiave umoristica, ma anche al proprio pubblico, i nuovi americani appena immigrati nella nazione in prorompente espansione, immigrati che possono capire più facilmente un racconto fumettistico rispetto a uno solo testuale.

E non è forse un caso che il primo ad essere elevato al rango di artista della nuova arte dalla critica (nelle “Seven Lively Arts”, le sette arti vitali del critico Gilbert Seldes) sia George Harriman, l’autore di Krazy Kat (1910), che proveniva da una famiglia di mulatti creoli della Louisiana, impegnati nel movimento abolizionista della schiavitù: un altro figlio del tumultuoso ma, nella sua incarnazione migliore, vitalissimo melting pot americano.

Ma, del resto, la storia del fumetto, specie quello americano, è inevitabilmente fatta da migranti che raccontano nelle loro opere, in modo diretto o indiretto: lo stesso, fondante Superman (1938) di Siegel e Shuster riflette nel suo spaesamento di ultimo superstite del pianeta Kripton quello dei suoi due creatori, entrambi provenienti da famiglie di immigrati di origine ebraica. E figli di immigrati ebrei saranno anche i grandi rivoluzionatori del fumetto supereroico, Stan Lee e Jack Kirby. Un tema – quello degli immigrati ebraici, ma anche di altri popoli e culture – che sarà raccontato appieno nel fumetto da un altro grandissimo autore, Will Eisner, nel ciclo di opere con cui codifica il moderno graphic novel, a partire da Un contratto con Dio (1978).

Insomma, l’opera di Tan è un capolavoro senza tempo del fumetto, una delle non moltissime opere per cui il termine si possa spendere senza grossi timori. Un volume perfetto, inoltre, per l’utilizzo scolastico, magari da affiancare a un grande classico poco valorizzato della nostra letteratura, la poesia Italy di Giovanni Pascoli, che così bene ha interpretato la drammatica epopea delle migrazioni americane.

“Il tramontano discendea con sordi

brontoli. Ognuno si godeva i cari

ricordi, cari ma perchè ricordi:

quando sbarcati dagli ignoti mari

scorrean le terre ignote con un grido

straniero in bocca, a guadagnar danari

per farsi un campo, per rifarsi un nido…”


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