Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e La luna e i falò: cosa hanno in comune le opere dedicate a Constance Dowling
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Cesare Pavese, Torino, 1950
È questa la frase con cui Cesare Pavese, sulla prima pagina del suo romanzo Dialoghi con Leucò, decide di lasciare questo mondo. Cesare Pavese verrà trovato morto suicida in una camera d’albergo a Torino il 27 agosto del 1950, a soli 42 anni. Chiede ai giornalisti di non fare “troppi pettegolezzi”. Si sta riferendo alla sua ultima tormentata relazione, quella con la diva del cinema Constance Dowling, alla quale dedica la sua raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
La morte di Pavese, considerato uno dei più importanti autori del ‘900, lascerà un vuoto sia nella letteratura, che nella città di Torino. Così leggiamo, riportate nella prefazione di Marta Barone a La luna e i falò di Marino Magliani e Marco D’Aponte, le parole che Natalia Ginzburg nel suo Ritratto di un amico dedica all’amico Cesare:
«La nostra città rassomiglia, adesso noi ci ne accorgiamo, all’amico che abbiamo perduto e che l’aveva cara; è, come lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda […] in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua figura».
Ma cosa ha spinto un uomo amato dagli amici e ormai riconosciuto anche dalla critica, avendo vinto quello stesso anno il Premio Strega per il suo La bella estate, a compiere un gesto così estremo?
La vita e le opere di Cesare Pavese: riassunto
Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle langhe a cui rimarrà legato per sempre e in cui passa ogni estate con la sua famiglia. Frequenta le scuole medie e il liceo d’Azeglio a Torino, dove conosce alcune delle persone più importanti della sua vita, come Tullio Pinelli, Leone Ginzbug (futuro marito di Natalia, sua amica per la vita) e Giulio Einaudi, il futuro editore di tutti i suoi libri.
Pavese è prima un ragazzo e poi un uomo complesso, tormentato, sempre alla ricerca delle soluzioni meno banali a un problema che lo tocca molto: il conflitto tra l’individuo e la collettività, la storia individuale e quella della società in cui si vive. Traduttore e studioso della letteratura americana, insegna lettere al liceo. Siamo in pieno periodo fascista quando viene arrestato e ingiustamente condannato a 3 anni di confino per antifascismo nel 1935, in seguito al ritrovamento di una lettera politica dopo una perquisizione a casa sua.
Una volta tornato a Torino scoprirà che le sue prime poesie pubblicate in Lavorare stanca sono rimaste completamente inosservate e la donna a cui era realmente destinata la lettera per cui venne confinato, Tina Pizzardo, si era sposata con un altro. Sarà solo la prima delle sue delusioni d’amore. Fernanda Pivano, sua ex allieva con cui intraprese una tormentata relazione, rifiuterà di sposarlo nel 1940 e nel 1945 vivrà ancora una volta una storia d’amore piena di sofferenza con Bianca Garufi, conosciuta durante il trasferimento alla sede Einaudi di Roma, casa editrice con la quale ormai collaborava stabilmente.
Dopo le prime opere poetiche, come quelle contenute nella raccolta Lavorare stanca (1936), passerà alla prosa, grazie alla quale la critica si accorgerà finalmente di lui, con i romanzi tra cui Paesi tuoi (1941), Dialoghi con Leucò (1947), Il compagno (1947), La bella estate (1949, Premio Strega 1950) e La luna e i falò (1950).
Nonostante tutti i lavori però Pavese scivola sempre di più in uno stato depressivo. Dapprima la delusione con Constance Dowling, che gli fa credere che si tratti di un amore ricambiato per poi ripartire per l’America con Andrea Checchi e alla quale dedicherà La luna e i falò:
«For C. – Ripeness is all» (ossia, “la maturità è tutto”, citando il King Lear di Shakespeare).
In secondo luogo, le accuse negli ambienti intellettuali comunisti per un suo articolo uscito su Cultura e realtà. Il Premio Strega per La bella estate nel 1950 non riuscirà a risollevare le sorti di un uomo in silente agonia.
Gli ultimi giorni prima della morte di Cesare Pavese: un suicidio annunciato?
«Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte».
Il mestiere di vivere, 25 marzo 1950
Quando Cesare Pavese morì era forse l’autore italiano più importante e influente di quegli anni. La sua morte scosse tutti, intellettuali a lui vicini, amici e critica. Non bisogna però cadere nella tentazione di attribuire il suicidio di Pavese alla relazione complicata e alla delusione d’amore per Consance Dowling. Il rapporto che ha Pavese con il suicidio, con la morte e con la vita stessa ha radici molto profonde, che vale la pena approfondire e analizzare.
La vita di Pavese è stata segnata dalla morte, fin dall’infanzia. A cinque anni perde suo padre e nel 1930 la madre, rimanendo a vivere tutta la vita con sua sorella Maria. Ma a segnarlo particolarmente sarà il suicidio di un suo compagno di classe del liceo e per la quale comporrà i versi, che nascondono forse un desiderio di emulazione:
Sono andato una sera di dicembre
per una stradicciuola di campagna
tutta deserta, col tumulto in cuore.
Avevo dietro me una rivoltella.
Lettera a Mario Sturani, 1927
Il suicidio è qualcosa a cui Pavese penserà sempre nel corso della sua vita. Oltre alle testimonianze dirette dei suoi amici, una grossa testimonianza di queste riflessioni si hanno nel suo Il mestiere di vivere, uno zibaldone che raccoglie le sue riflessioni personali e letterarie dal 1935 al 1950 Il mestiere di vivere.
Qui si leggono tantissimi riferimenti al suicidio, soprattutto nell’ultimo anno di vita:
«Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle […] Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?».
1 gennaio 1946
«Roma tace. […] Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.».
1 gennaio 1950
E la frase che più di tutte segna il suo addio al mondo, che coincide anche con l’addio al mondo della scrittura, nonché la frase con cui si chiude il diario il 18 agosto del 1950:
«Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò […]. La cosa più segretamente temuta accade sempre […] Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
18 agosto 1950
Il suicidio di Cesare Pavese nel graphic novel La luna e i falò Tunué di Marino Magliani e Marco D’Aponte
Gli autori dell’adattamento a fumetti dell’ultimo romanzo edito in vita di Pavese compiono un’operazione molto interessante. Trattandosi per quanto riguarda La luna e i falò di un romanzo in moltissime parti autobiografico integrano all’interno della storia di Anguilla la storia stessa di Pavese, alternando le due “realtà” con l’alternanza colore/bianco e nero.
E così, il personaggio di Anguilla e quello di Cesare diventano due facce della stessa medaglia. Pavese va per l’ultima volta a Santo Stefano Belbo nel 1950, come a voler tirare le fila della sua vita, a partire dal luogo che più in assoluto ha significato per sé.
Poi, una volta salutato il suo amico Nuto e cercato disperatamente sé stesso tra quelle colline, senza riuscirvi, il ritorno a Torino e il drammatico finale, reso asciutto, essenziale nella crudele sequenzialità delle due tavole.
Scopri di più sul graphic novel.
La luna e i falò
L’adattamento a fumetti del classico di Cesare Pavese, uno dei punti di riferimento della narrativa italiana del ‘900.