Un po’ Roger Rabbit, un po’ Billy Bat, un po’ Cattivik, Dirt è un cartone animato degli anni ’50, sessista, tabagista, scorbutico e narcisista, apparentemente stravagante e divertente, in realtà un vero e proprio antieroe, protagonista della omonima serie a fumetti. Il suo creatore, Giulio Rincione, ce lo racconta in questa intervista.
Il personaggio di Dirt sembra la versione cattiva e disillusa di Roger Rabbit e di Bugs Bunny, eppure non si limita a capovolgere l’idea di eroe candido o vincente, al contrario mostra una grande complessità. Com’è nato? Ce lo vuoi presentare?
Dirt è un cartone animato che vive nel mondo degli umani. La sua complessità e la sua disillusione sono proprio il frutto dell’esposizione prolungata all’essere umano. I cartoni animati vivono unicamente in funzione del pubblico: è il motivo per cui sono stati creati ed è quindi la loro ossessione. Un po’ come i personaggi popolari sui social, i cartoni hanno il terrore di essere dimenticati dal loro pubblico e farebbero di tutto pur di rimanere a galla.
Ogni cartone ha il suo creatore, e c’è un legame molto forte ed esclusivo tra essi.
Ecco, Dirt non parla mai del suo ideatore, di lui non si sa nulla.
Dirt è lo scarabocchio di un bambino, o di un tossico, disegnato frettolosamente con un pennarello su un adesivo, ad una fermata della metro. Qualcuno ha poi deciso di usare quello scarabocchio per creare un personaggio a zero budget e impiegarlo come mascotte di un brand di sigarette. Questo è quello che ci viene raccontato nel libro, e la cosa divertente è che è anche più o meno quello che è successo nella realtà. Durante una trasferta lavorativa, infatti, uscendo dalla metro, mi imbatto proprio nello scarabocchio di Dirt, su un adesivo. Un disegno infantile e magnetico che ha iniziato a perseguitarmi e ossessionarmi. Ci sono voluti diversi anni prima di capire quale storia avrei potuto raccontare. Dirt è quindi un orfano. Ed è un mediocre. Non è un cartone di successo come Bugs, Roger o Mickey. È un cartone che vive un profondo complesso di inferiorità che nasconde dietro una maschera di menefreghismo e rudezza.
Se dovessi stilare una mappa di cartoni animati, videogiochi e fumetti in cui poter inserire anche Dirt, che cosa ci troveremmo?
Beh, Dirt sembra quasi un puzzle di tanti altri personaggi di fumetti e cartoni animati. Ci risulta familiare anche se non l’abbiamo mai visto prima. Ha un non so ché di Pippo, alcuni tratti somatici di Le Tont de La Bella e la Bestia. Un po’ di furbizia di Bugs Bunny, e sicuramente condivide gran parte del suo DNA con Cattivik di Bonvi. Ecco, forse è proprio Cattivik la figura più vicina a Dirt. Goffamente cattivo, che non riesce comunque a celare il suo cuore (ogni tanto). La cosa bella è che non ho mai deciso di ispirarmi a Cattivik in maniera consapevole. Ma Cattivik è stato l’eroe della mia infanzia, ed è tutt’ora uno dei miei fumetti preferiti di sempre.
Se poi uno pensa alla descrizione che ne dava Bonvi: «una macchia d’inchiostro: poco importa cosa sia esattamente, l’importante è che sporchi molto!» ecco che il puzzle è completo. Chi può sporcare più di un personaggio che si chiama Dirt?
Associati all’infanzia, nelle tue mani i personaggi dei cartoni animati riescono a raccontare qualcosa che appartiene però al mondo adulto, in particolare la nostalgia, la memoria e la paura di scomparire. Ti va di raccontarci questi temi molto presenti in Dirt?
Ciò a cui siamo realmente vulnerabili, nella vita, è proprio la nostalgia, il rimpianto. Sapere di non potere più fare determinate cose, di non poter più vedere e abbracciare determinate persone. Sono sensazioni presenti nella nostra vita, ogni giorno, anche a livello subliminale. Noi siamo fortunati a non sapere quando effettivamente stiamo facendo una cosa per l’ultima volta, o quando stiamo vedendo una persona per l’ultima volta.
Alla nostalgia, con l’avvento dei social e la sempre maggiore esposizione ad essi, si è aggiunta anche questa esigenza di mostrarci sempre. Abbiamo estremizzato all’inverosimile il bisogno di approvazione esterna. I miei cartoni animati non sono diversi dalle persone reali. Ne sono semplicemente una caricatura. Nascono per intrattenere un pubblico e la loro vita stessa è legata ai sentimenti che il pubblico prova per essi.
Dirt offre anche uno sguardo impietoso sullo show biz. Perché quella di impersonare un ruolo anche fuori da un set sembra una necessità che oggi riguarda tutti?
Dalle risposte date in precedenza si capisce già che i cartoni animati sono solo un pretesto per raccontare noi umani. Un po’ come avevo già fatto su Paperi, ma in modo molto più certosino, articolato. Tutto, oggi, si muove verso l’apparenza. Sembrare anziché essere. E ovviamente tutto si muove verso la vendita più feroce. Ci vendono qualsiasi cosa, dal cibo, all’etica, passando per le tecnologie. Ci vendono ogni giorno bandiere diverse, ci vendono parole giuste e sbagliate. E tutto questo avviene sempre tramite l’intrattenimento. I cartoni recitano la loro vita perché sono stati scritti in quel modo. Noi dovremmo iniziare a ricordarci che nessuno, in realtà, ci dovrebbe scrivere cosa fare, nella vita, perché per fortuna siamo molto più complessi e pieni di sfumature, non siamo prodotti catalogabili da una serie di etichette, hashtag e bandierine.
Qual è la peculiarità del mondo post-apocalittico immaginato da te in cui si muove Dirt?
Che nessuno ha imparato nulla. Il mondo è stato devastato da una pandemia, eppure vediamo scenari completamente distrutti dalle persone. Nessun personaggio che incontriamo nella saga parla mai della pandemia come un qualcosa che si poteva evitare. Nessuno si dà delle colpe, nessuno fa un’analisi del perché il mondo sia finito nel 2020. No. Tutti i superstiti, con i mezzi che hanno a disposizione, cercano di sopravvivere, di conquistare un’altra giornata. Perché non è colpa loro se il mondo è finito. Così come non è colpa nostra. Mai. Non è colpa nostra se il mondo sta finendo a causa nostra.
Raccontare uno scenario post-apocalittico implica sempre un confronto con un mondo di prima, a volte idealizzato proprio nella misura in cui è irrimediabilmente perduto. Quanto ci può aiutare immaginare questi scenari oggi, dopo una pandemia mondiale e in vista di un cambiamento climatico che sembra sempre meno evitabile?
Da un lato io spero sempre che possa aiutare, ma so benissimo che è già troppo tardi. I profitti e il mercato non cambieranno direzione. Non abbiamo bisogno di altre avvisaglie per vedere che il clima è irrimediabilmente cambiato. Eppure non verrà fatto nulla di concreto. L’unica cosa che è successa nel corso degli anni è che ci hanno venduto il concetto di “green”, così possiamo pagarlo a parte. Ma non dobbiamo preoccuparci per il pianeta, sia chiaro. La Terra sopravviverà, la natura troverà sempre un modo di adattarsi e rinascere. Siamo noi che non lo faremo.
Perché l’accostamento tra estetica anni Cinquanta e post-apocalittico – come dimostra anche l’esempio di Fallout – risulta così affascinante?
I contrasti sono quelli che rendono le cose interessanti. Il dolce/salato nel cibo, i colori complementari nella pittura. Dai contrasti più estremi, poi, si possono estrapolare una serie infinita di sfumature e dosaggi che creano una mappa sempre nuova. In Dirt forse ho esagerato. Roba post-apocalittica con personaggi anni Cinquanta, cartoni animati per giunta. Ma è divertente. È divertente vedere come un personaggio di tempi passati abbia difficoltà a farsi strada in un mondo nuovo. Come il suo linguaggio e il suo atteggiamento risultino sempre fuori posto. Perché ad un certo punto le cose devono assemblarsi per forza, devono stabilizzarsi in un “Frankenstein” che nessuno poteva prevedere.
Come hai lavorato sui libri? Quali sfide, non solo tecniche, hai affrontato per realizzare Dirt?
Lavorare su Dirt è qualcosa di incredibile. Sia in senso positivo che negativo. La sola idea di dover affrontare quattro volumi da duecento tavole mi ha fatto venire non poche ansie e dubbi sulle mie reali capacità.
Se a questo poi aggiungiamo tutti i limiti tecnici che sono venuti a galla nel mio modo di disegnare e fare recitare personaggi “cartoon”, morbidi e ci aggiungiamo anche il fatto che in Dirt il mio stile non viene estremizzato mai perché non voglio mettere la storia in secondo piano, beh il risultato è davvero un grosso cumulo di lavoro e di ansie. Ma io rimango fiducioso. Ho imparato nel tempo a dividere i grossi lavori in lavori più piccoli. Cerco di portare a casa, ogni giorno, una tavola (o almeno ci provo). Mi concentro su ogni passo che muovo dopo il precedente e non alzo mai lo sguardo per vedere quanto è distante la meta perché ho paura che mi venga lo sconforto. Credo ancora, dopo quattro anni dalla sua prima stesura, che Dirt sia una storia che valga la pena di essere raccontata. È quella storia che ti capita poche volte nella vita. E non puoi lasciartela scappare.
Come si colloca Dirt nel tuo percorso di autore? C’è un episodio o un aneddoto in particolare che associ alla lavorazione di questa storia?
Dirt è l’inizio di una nuova era nel mio percorso autoriale. Iniziato con Storielline, poi Paranoiae e Condusse Me, quasi tutta la mia produzione è sempre stata incentrata sulle sensazioni psicologiche, sui sentimenti e sugli stati d’animo. Avevo dei demoni coi quali dovevo chiarire molte questioni e sono felice di averlo fatto (forse). Adesso sono più sereno, più libero e Dirt rappresenta il ritorno al fumetto come forma più pura di intrattenimento. Sì, è chiaro che il carico emotivo e psicologico è molto forte anche in Dirt, ma è solo una conseguenza dello spessore dei personaggi. La storia, e non più i disegni, è al centro di tutto.
L’aneddoto che mi viene in mente è proprio all’inizio degli storyboard del primo volume. Avevo preso inconsapevolmente la piega dei miei vecchi volumi e avevo concentrato in 120 pagine tutta la storia. Una roba psicologica e anche ermetica a tratti. Ricordo fogli e fogli di sketch e divisioni in tavole. Quando ho finito ho guardato il tavolo cosparso di fogli e sono rimasto in silenzio per un po’. Poi ho preso e ho buttato tutto.
Dirt non è un riassunto, ho pensato. Qui c’è tanto, tanto lavoro da fare.
Prova a raccontare Dirt con una sola, brevissima frase.
Un viaggio di ambizioni, verso il proprio riscatto.