“Dance!” di Mazars: il fumetto come danza su carta.

di Lorenzo Barberis

Dal 21 ottobre è arrivato in libreria per Tunué Dance! di Maurane Mazars, autrice rivelazione al Grand Prix Angoulême 2021. Mazars (1991, Tolone), è stata premiata già nel 2015 per Acouphènes, graphic novel in bianco e nero pubblicata da Editions AGPI.

Il fumetto, come evidenzia chiaramente il titolo e la efficace copertina, tratta del tema della danza, anche se, per suo tramite, molte altre tematiche entrano in gioco.

L’opera, indubbiamente interessante, anche perché evidenzia una questione spesso non particolarmente affrontata, ma a suo modo centrale per circoscrivere il fumetto come medium: ovvero, il rapporto del fumetto con le altre arti.

Da un lato, è scontato il collegamento del fumetto con l’arte visiva e la letteratura, anche se si apre al paradosso evidenziato sarcasticamente da Neil Gaiman (e, in altre forme, da molti altri): la letteratura scritta e l’arte visiva sono, prese in modo autonomo, ritenute il vertice della produzione culturale (o almeno il rimando più immediato per tutti). Quando però vengono unite insieme, nei fumetti, spesso questo è stato declassato automaticamente a un prodotto per bambini o comunque di scarso pregio. Un paradosso, che tuttavia ha spesso operato, e che solo in tempi relativamente recenti pare andare verso un – lento e faticoso – superamento.

Ma esistono anche altre arti: quella con cui maggiormente si è confrontato il fumetto è quella del cinema, il “gemello diverso” che, nato negli stessi anni del fumetto modernamente inteso (in quel 1895 che vede le proiezioni dei Lumiere a Parigi e i comics di Yellow Kid a New York) ha avuto un ben più precoce riconoscimento culturale, in sé chiaramente sacrosanto. Già negli anni ’20 dell’Espressionismo tedesco le varie avanguardie riconoscono la valenza artistica del cinema e lo mettono al centro delle proprie sperimentazioni. Gli esperimenti sul fumetto, pur presenti (su tutti, i volumi di Max Ernst, come Una settimana di bontà) non vengono riconosciute come tali e ricondotte piuttosto a variazioni sull’arte classicamente intesa.

Ecco quindi che si diffonde una concezione del fumetto come “cinema su carta”, da sempre serpeggiante nel medium, per sfruttare la visibilità e il successo del cinema come Traumfabrik, “fabbrica dei sogni” per eccellenza. E dal linguaggio del cinema il fumetto riprende molte possibilità di inquadratura, da realizzarsi con la “camera virtuale” del disegno. Ma non manca una legittima critica a questa concezione, che porta a subordinare il medium fumetto ad un’altra forma espressiva.

Dall’idea di fumetto come cinema su carta nasce l’avvicinamento a un’altra arte, quella fotografica, con il fotoromanzo, spesso non a caso definito anche “cineromanzo”: molto in voga negli anni ’40 e ’50, con epicentro in Italia, tanto che “fumetti” sono nel mondo anglosassone appunto i fotoromanzi stessi (e Fellini, a mostrare l’importanza del fenomeno, dedicherà un suo primo capolavoro, Lo sceicco bianco, al mondo da sogno appunto del fotoromanzo).

Ma più interessante e innovativa è la sperimentazione di un grande del fumetto come Gianni De Luca, che ha voluto indagare, nella sua trilogia shakespeariana, il rapporto tra fumetto e teatro, individuando la soluzione (poi ripresa anche nel fumetto americano supereroico) di usare una grande splash page come sfondo, equivalente alla scena teatrale, su cui far muovere i personaggi ripronducendone il movimento senza scinderlo in una serie di vignette.

E proprio questa soluzione troviamo in quest’albo fin dalla copertina, a rendere l’eleganza del movimento della danza, che, per certi versi, è accomunata al teatro dall’essere giocata sulla presenza fisica di un corpo nello spazio, la sfida forse più difficile da rendere nel medium bidimensionale del fumetto.

Mazars si muove però bene su questo piano, usando soluzioni differenti per mettere al centro della storia l’affascinante danza dei corpi come elemento narrativo. Fin dall’inizio, dove il sogno-incubo del protagonista appare in un alternarsi convulso di figure sulla tavola come spazio unitario. Subito dopo, nel vitalissimo balletto mash up di classica e tip tap che egli propone all’Accademia tedesca e che viene accolto con scetticismo conservatore, la tecnica cambia e siamo qui vicini ai modi di De Luca, con la figura del corpo che si muove nello spazio – in questo caso danzando – che si ripete in modo ravvicinato nella vignetta.

E l’elemento punteggia tutta l’opera, divenendo un controcanto visivo delle vicende del protagonista. La sua storia diviene una cartina al tornasole per approfondire varie tematiche presenti sullo sfondo: gli orrori della guerra e del nazismo che aleggiano sullo sfondo di una Germania spezzata e in difficile ricostruzione nei ’50; il tema dell’identità omosessuale del protagonista, sofferta e combattuta in un’era in cui non era ancora intervenuta la – pur parziale – liberazione sessuale degli anni ’60.

Poi, nello scenario americano, diviene determinante il tema del razzismo e del sessismo: il protagonista, pur incontrando le difficoltà di immigrato spaesato nel vasto e seducente mondo americano di Broadway e dintorni, ha più facilità delle sue colleghe ballerine e dei suoi colleghi neri ad ottenere parti, considerazione, apprezzamento. Anche se, per contro, le sue esperienze difficili comportano una rigidità e una difficoltà a immedesimarsi nella patina più superficiale del mondo dei musical, così come non esprimeva la sua identità il rigore classicista della danza classica in Germania: anche in questo, il tema della difficile ricerca dell’identità risuona equilibratamente nel tema strettamente artistico.

Tra i punti di merito, poi, vi è il rifiuto di un finale totalmente conciliatorio: se da un lato si descrive una maturazione del protagonista e in generale una crescita dei comprimari, non tutti i nodi vengono sciolti e le questioni di fondo vengono lasciate aperte, come del resto rimangono nel mondo reale. Uno spunto di riflessione per il giovane lettore che non gli offre facili soluzioni precostituite.

Sotto il profilo della resa artistica, particolarmente azzeccata risulta la scelta dell’acquerello, declinato in tutta la sua potenza fluida ed acquosa, a volte con tinte sgargianti ed espressive, a volte con toni cupi e malinconici, seguendo sempre le evoluzioni della trama e degli stati d’animo del protagonista. La liquidità dell’acquerello è perfetta ad evocare il movimento fluido della danza, sia quando è leggerezza, sia quando è espressione del peso della vita nel peso del corpo. I corpi dei protagonisti (quasi tutti del mondo della danza, logicamente) paiono continuamente danzare non solo quando sono in scena, ma anche nelle sequenze di raccordo che li indagano nella loro vita quotidiana. In tutto emerge una costante espressione di grazia, che è ciò che affascina lo spettatore anche non colto della meraviglia dello spettacolo del balletto (sia quello classico, dove lo sforzo viene dissimulato in una impressione di eterea indifferenza alla gravità, sia in quello moderno, che supera tale concezione: un tema su cui anche l’opera dà modo di ragionare).

Appaiono interessanti, in connessione allo studio sul segno e sul colore, anche due aspetti specifici del linguaggio fumettistico di quest’albo. L’autrice rinuncia infatti al segno di contorno classico, tipico del fumetto, in favore di una definizione dei corpi col puro colore, oppure tramite una delineazione del profilo in acquerello. Una scelta che ovviamente contribuisce a rafforzare il suddetto senso di fluidità.

In modo simile, viene abolito lo spazio bianco del fumetto, realizzando la closure tra le vignette con una semplice linea nera, cosa che risulta lievemente claustrofobica (e, per contro, fa così risaltare il momento liberante della danza).

Insomma, un fumetto che affronta in modo avvincente ed efficace il mondo della danza, e che può sicuramente essere di particolare interesse per giovani lettori e lettrici appassionati di quest’arte. 


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