“Ciao mamma, vado in Giappone”: la recensione di Marilena Saracino

Di Marilena Saracino, docente di lingua e letteratura inglese all’Università D’Annunzio di Chieti/Pescara.

Non sono una lettrice di fumetti ma quando si ha come amico il massimo esperto italiano del genere ti ritrovi a sfogliare le pagine di un testo che hai scelto sull’onda dell’affetto piuttosto che su quella del gusto. E quale grande sorpresa è quella che arriva quando di pagina in pagina ti senti sempre più coinvolto e tirato dentro una storia che solo qualche minuto prima eri pronto a etichettare con uno dei soliti aggettivi risolutori, “bello”, “simpatico”, “divertente” che di fatto nascondono la stessa mancanza di opinione di Enrichetto Cosimo che si ritrova a fare l’opinionista solo perché in una riunione di redazione alza la mano per avere quel ruolo di cui non conosce neppure il significato. Ebbene ciò è quanto è accaduto a una lettrice come me, inesperta del campo ma non così innocente da non riconoscere i pregi di Ciao mamma, vado in Giappone di Luca Raffaelli ed Enrico Pierpaoli, pubblicato dalla casa editrice Tenué e da pochi giorni in libreria.

La storia possiede alcune delle caratteristiche chiave che attraggono tutti i giovani lettori: un viaggio in un luogo lontano, la fascinazione che quel luogo esercita sulle loro menti soprattutto per ciò che riguarda il fumetto, la sfida diretta a una prova di forza che pure attrae i più piccoli sempre pronti a dimostrare le loro abilità. Ecco allora che Enrichetto Cosimo, eroe involontario, è costretto a volare in Giappone dopo che Frangipane, “l’alunno più enorme di tutta la scuola”, “con un giro vita in 80 giorni, un flessore radiale da boscaiolo, ispida peluria e fiatazza” (p. 4), gli lancia una sfida a cui non può sottrarsi se non vuole che “pezzi del suo cranio con orecchie da topolino finiscano nella spazzatura”. Il viaggio non è solo lungo ma ovviamente intriso di pericoli e ostacoli che Enrichetto, Polletti e Beatrice dovrebbero riuscire a superare avendo ricevuto anche il viatico del sommo poeta, sì proprio Dante Alighieri: “D’accordo. Va’ pure Beatrice, se hai da fare: per te suonino sgarze le fanfare!”.

Tuttavia, non si tratta solo di una bella storia in una struttura narrativa funzionante al pari della fiaba, a cui va senz’altro il primato strutturale, in quanto modello di racconto di avventure e di prove, fondato sulle azioni dei personaggi, lineare e con scioglimento finale. Parafrasando il Barthes de L’avventura semiologica, Raffaelli dimostra uno spiccato interesse per le strutture tecnico-formali che non riconduce semplicemente il racconto al suo senso ma al modo in cui il senso è costruito. Di qui, i numerosi momenti metanarrativi in cui la narrazione riflette su di sé e sul suo farsi, la commistione di generi (articoli giornale, poesie, racconti paralleli come quello del Dottor/Comandante Lawermonth, manifesti pubblicitari), il ruolo di narratore che i due personaggi principali, Enrichetto e Beatrice si scambiano con estrema disinvoltura, non sono solo la dimostrazione della vocazione artigianale a fabbricare storie dell’autore ma rivelano caratteristiche che conferiscono al fumetto quelle qualità letterarie che non ti aspetti di trovare in un testo simile. Ecco perché mi sento di dire che questo fumento potrebbe diventare parte dell’educazione estetica dei lettori più piccoli e anche di quelli che piccoli non sono più.

 La lingua, altresì, contribuisce al “piacere del testo”. Si comprende presto che si tratta di un idioletto che non mira solo a rafforzare il legame tra i personaggi ma invita il lettore a giocare sullo stesso tavolo dello scrittore in cui le parole hanno tagliato i ponti con la referenzialità per virare verso strategie ludiche che garantiscono loro quell’autonomia semantica in cui chi legge può riscoprire nuovi significati oltre che divertirsi per il modo in cui le stesse parole sono decostruite. Il divertimento sembra assicurato non già perché il titolo del fumetto ci predispone al sorriso e quindi siamo pronti ad accogliere le incongruenze proprie dell’ironia, che scaturiscono da sottili manipolazioni semantiche, dallo scarto fra livello superficiale e quello profondo, dai doppi sensi, dalle sempre efficaci antifrasi. Sì, c’è tutto questo! Ma c’è anche quell’ironia che definirei “eufemistica” non perché tesa a conservare precisi codici di comportamento sociale, storicamente determinati, ossia quell’ironia che paradossalmente finisce per celebrare la sagra dell’ipocrisia. EUFEMISTICA perché “togliendo” ci restituisce il doppio e forse più, perché ciò che toglie non è quello che non si può dire in quanto “politicamente scorretto”. Ciò che toglie e così facendo evoca è quello a cui non pensiamo e di cui non ci accorgiamo più. Qui il disegnatore risponde con estrema arguzia quando a pagina 54 disegna due vignette memorabili, ma non uniche! Enrichetto e Beatrice devono spiegare alcune cose successe nel capitolo precedente e per farlo si improvvisano concorrente e presentatrice di un quiz con tanto di domande/opzioni tra cui scegliere la risposta giusta, all’interno di un grafico che senza alcuna esitazione ci riporta direttamente allo schermo televisivo. Il lettore non può non essere catturato da questa immagine in cui lo scheletro del quiz è usato impropriamente come impropriamente è intriso di quiz ogni palinsesto televisivo. E allora noi lettori ripensiamo a Renzo Arbore quando cantava “La vita è tutta un quiz” ma anche a Natalia Ginzburg quando parlava di “linguaggio artificioso, cadaverico” per sollecitare i compagni di Botteghe Oscure a non adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico e conservare dentro di noi clandestinamente il nostro vero linguaggio. È la felice definizione di “pensiero laterale” di cui parla Beatrice che non serve solo a scagionare Spilungo e Giappina ma a ricordarci della imprescindibile importanza del punto di vista, della prospettiva, del pensiero vivo da usare per contrapporci al processo di sterilizzazione delle parole e delle immagini cui siamo sottoposti.

Infine, la dimensione fantastica, il ritmo saltellante e l’umore surreale dell’intreccio si intersecano con immagini che riescono a raccontare un momento dell’azione anche in assenza di dialoghi — una qualità che solo i grandi disegnatori hanno! Si vada a pagina 90 dove tre vignette si susseguono quasi identiche perché i protagonisti dopo essersi interrogati e riflettuto sul male del mondo concludono che: “sono frasi che lasciano il segno. Frasi che richiedono almeno due o tre vignette di commovente silenzio…”. Tutte le vignette di questo fumetto hanno una forza narrativa così intensa da rendere impercettibile il passaggio della scrittura delle parole all’ampliamento visualizzato in immagine dell’idea che quelle stesse parole veicolano in un processo di osmosi che induce il lettore ad aprirsi a qualsiasi suggestione e fantasia.

“Per andare al sodo e senza troppa maionese” devo dire che sono rimasta “sassofritta” dopo aver letto questo “sgarzellissimo” libro in cui l’immaginazione visiva e quella narrativa s’intrecciano perfettamente in una spazialità significante contesa a pari merito dalle tracce grafiche del disegno e dalle unità tipografiche delle lettere.

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